Empatia del medico

Da quando si è scoperto che oltre a prescrivere farmaci ed esami, la figura del medico e il suo modo di interagire con i malati svolgono un ruolo psicologico importantissimo ai fini della guarigione, la classe medica ha cominciato a interrogarsi su quali approcci possono risultare più indicati nel rapporto con i pazienti. Ma fino a oggi non ci sono conclusioni chiare e definitive. Uno studio pubblicato di recente sulla rivista Archives of Internal Medicine ha scoperto che circa un terzo dei medici statunitensi, durante le visite, racconta fatti della propria vita privata o questioni personali ai pazienti, i quali, sempre secondo l’indagine, non vivono con estremo piacere questo tipo di approccio. Spiega Egidio Moja, docente di psicologia medica all’Università di Milano e direttore del Centro Cura, che studia i problemi della comunicazione in medicina: “In linea generale, il camice bianco dovrebbe evitare di parlare di sé durante le visite perché potrebbe suscitare nei pazienti questa domanda: sono qui per risolvere un mio problema o quelli del medico?”.

Il medico che parla dei fatti suoi è soltanto uno dei tanti aspetti che riguardano la comunicazione tra medico e paziente: è un ambito che coinvolge diversi aspetti sociologici e psicologici e non ancora completamente chiarito. Entrano in gioco le esperienze di vita del paziente e quelle del medico, le sensazioni di entrambi, le emozioni, le aspettative: soprattutto se si tratta di malattie gravi, come per esempio i tumori, oppure le patologie croniche, come il diabete. Da qualche anno si parla con sempre più convinzione dell’empatia come di uno strumento a disposizione del medico per entrare davvero in sintonia con il paziente. “Per empatia”, puntualizza Moja, “non si intende soltanto la capacità che un professionista possiede di capire e di condividere le emozioni e le paure del malato, ma anche l’abilità nel sapergli comunicare che i suoi problemi sono stati capiti e sono condivisi”. L’empatia è una capacità chiaramente innata in molti medici: per alcuni è assolutamente naturale entrare in sintonia con i problemi degli altri e manifestarlo. Ma questa abilità si può anche apprendere: esistono tecniche di comportamento, ormai collaudate, che aiutano il medico a stabilire una relazione più empatica con il paziente. “Non è necessario farlo in tutte le situazioni” aggiunge lo psicologo “e non è nemmeno necessario applicarla a tutti i pazienti, perché non viene richiesta da tutti”. Ci sono persone che infatti non manifestano il desiderio di essere compresi, quantomeno nella loro dimensione emotiva, ma chiedono al professionista di dare loro tutte le informazioni utili e necessarie e di aiutarli a guarire. Punto e basta. Altri, invece, vivono il bisogno di essere compresi fino in fondo come una necessità. “Ciò non significa che ci sono pazienti giusti e pazienti sbagliati” precisa Moja “ma è il medico che si deve adattare a ogni situazione, capire quali sono le esigenze del singolo paziente e comportarsi di conseguenza”.

Sentirsi capiti, anche negli aspetti più intimi e personali, dal proprio medico è sicuramente importante perché tutti noi, bene o male, viviamo di relazioni e quando soffriamo per una malattia abbiamo bisogno di empatia come l’aria che respiriamo. Ma quanto incide sulla terapia? “Alcuni studi” risponde lo psicologo “dimostrano che in questi casi il paziente è più preciso nel dare informazioni al medico sul suo stato di salute e si sente più agevolato nel fare domande. Da ciò deriva anche una compliance migliore: una più efficace adesione alle terapie prescritte, vale a dire senza sgarrare tempi o dosaggi, con evidenti ripercussioni sul risultato del trattamento”. Maggiore empatia vuol dire anche mettere al centro del lavoro dei medici il malato, la persona, e non soltanto la malattia. “Tutti gli sforzi e gli studi condotti su questi argomenti vanno nella direzione di superare la medicina basata sui sintomi, rimettendo al centro l’individuo visto nella sua globalità” chiarisce Moja. Una strada ancora in salita, perché è difficile cambiare abitudini millenarie e perché, probabilmente, fare il medico alla vecchia maniera è comunque più facile e crea meno problemi. Tanto che l’università si sta attrezzando per insegnare ai futuri medici come essere empatici anche quando non lo sono di carattere. “Da qualche anno ormai è obbligatorio partecipare al corso di psicologia medica, che nel vecchio ordinamento di studi era una materia facoltativa. Si impara così come capire la tipologia di paziente che si ha davanti e qual è il modo più corretto per condurre un colloquio. Si utilizzano anche tecniche di simulazione, come brevi rappresentazioni teatrali in cui gli stessi studenti interpretano, a turno, il ruolo del malato o del curante”.

Non solo: l’empatia è una materia che richiede aggiornamento costante, e infatti la cattedra di Psicologia medica di Moja ha svolto diverse ricerche su medici già esperti, filmando i loro colloqui con i pazienti e sottoponendo poi le riprese al giudizio degli studenti e di altri medici. “Gli errori che si fanno possono essere molti: dal linguaggio utilizzato, al gesto inappropriato, fino allo sguardo, che alcuni curanti tengono troppo fisso sulla cartella clinica o sul computer, mentre il paziente va guardato in faccia, altrimenti è impossibile intessere una relazione. Un approccio diverso a quello del medico di un tempo è oggi quanto mai necessario” conclude Moja “anzitutto perché le nuove tecnologie diagnostiche tendono a spersonalizzare il rapporto umano, e quindi c’è bisogno di maggiore relazione per contrastare questo fenomeno. Poi perché nel mondo, a differenza del passato, stanno sempre di più aumentando le patologie croniche, nei confronti delle quali il rapporto con il medico è fondamentale. Infine oggi i pazienti sono sempre più autonomi, vanno in Internet, leggono libri di medicina, riviste, e non accettano più il vecchio medico paternalista che lavora in silenzio”. Più empatia, quindi, fa bene ai pazienti, ma giova anche alla medicina.

È in arrivo il galateo dei medici: Micheal Kahn, psichiatra di Boston, ha lanciato dalle pagine dell’importante rivista medica New England Journal of Medicine la proposta di integrare la formazione post universitaria dei medici con un corso di buone maniere. “Soltanto così” spiega “si riusciranno a evitare quelle lamentele che spesso i pazienti si scambiano tra loro e raccontano ai famigliari”. Del tipo: “Non mi ha nemmeno guardato, si è limitato a guardare lo schermo del computer” oppure “non sorride mai e non mi ha detto nemmeno il suo nome”. Secondo lo psichiatra statunitense basterebbe cominciare da alcune semplici norme di comportamento per arrivare a elaborare un vero e proprio galateo dei camici bianchi. Per esempio, alla prima visita di un paziente ricoverato in ospedale bisognerebbe:
1) chiedere il permesso prima di entrare nella stanza e attendere la risposta;
2) presentarsi mostrando anche il cartellino di riconoscimento;
3) stringere la mano al paziente;
4) sedersi e magari sorridere se la situazione lo consente;
5) spiegare brevemente qual è il ruolo all’interno dell’équipe e nei confronti del paziente;
6) chiedere al paziente come sta vivendo la sua degenza in ospedale
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Massimo Barberi (airc.it)

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