Gesù, confido in te

( Versión original en español: http://conempatia.org/2020/04/26/confio-en-ti/ )

Un’antica tradizione racconta che un giorno, sant’Agostino in riva al mare meditava sul mistero della Trinità, volendolo comprendere con la forza della ragione. S’avvide allora di un bambino che con una conchiglia versava l’acqua del mare in una buca. Incuriosito dall’operazione ripetuta più e più volte, Agostino interrogò il bambino chiedendogli: «Che fai?» La risposta del fanciullo lo sorprese: «Voglio travasare il mare in questa mia buca». Sorridendo Sant’Agostino spiegò pazientemente l’impossibilità dell’intento ma, il bambino fattosi serio, replicò: «Anche a te è impossibile scandagliare con la piccolezza della tua mente l’immensità del Mistero trinitario». E detto questo sparì.

Il diavolo usa il fatto che a Dio non possiamo mai capirlo appieno per allontanarci da Lui. È una tattica che gli ha sempre dato buoni risultati perché la fiducia è molto legata alla speranza. Delle tre virtù teologali, la speranza sembra la meno importante, ma è lei che lancia la fede e la carità.

Nel capitolo 3 della Genesi vediamo come il diavolo tenta Adamo ed Eva:
Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: ‘Non dovete mangiare di alcun albero del giardino’?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: ‘Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete’». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male».

Adamo ed Eva mangiarono perché diffidavano della verità di Dio e quindi della sua bontà.
È una tattica sempre attuale: se il diavolo ci fa vedere Dio come un rigoroso esaminatore del nostro comportamento anziché come un Padre amorevole, finiremo per prendere le distanze da Lui e dalle sue leggi.
Di fronte a questo, la tattica di Dio è sempre stata quella di mostrarci il suo amore. Si è incarnato per amore, ha sofferto ed è morto per amore. Ci ha lasciato l’Eucaristia e gli altri sacramenti e sua madre per amore.

Ma noi uomini facilmente siamo ingrati e smemorati, quindi il Signore decide di intervenire nel corso dei secoli per ricordarci quanto ci ama e rafforzare la nostra fiducia in Lui.

a) Sacro Cuore di Gesù, confido in te

Margherita Maria Alacoque nacque in Francia nel 1647, perse suo padre a 18 anni. Si ammalò e per 4 anni rimase immobilizzata a letto fino a quando la Vergine la guarì miracolosamente. Si fece suora nel 1671 all’età di 24 anni.

Dal dicembre 1673 ebbe una serie di rivelazioni. Gesù voleva promuovere la devozione al suo Sacro Cuore.

Gesù chiese che fosse costruito un edificio dedicato al Sacro Cuore, che fosse dipinta un’immagine che mettesse in risalto il suo cuore e il motto “Sacro Cuore di Gesù, confido in te”, che le fosse dedicata una festa liturgica e che molte anime e paesi gli fossero consacrati al suo Sacro Cuore.

Alcuni messaggi:
“Alle anime consacrate al mio Cuore, darò le grazie necessarie per il loro stato”.
“Darò pace alle famiglie”.
“Sarò la sua protezione e il suo rifugio sicuro durante la vita e soprattutto al momento della morte”.
“I peccatori troveranno nel mio Cuore la fonte e l’infinito oceano di misericordia”.
“Benedirò le case in cui l’immagine del mio Sacro Cuore è esposta e onorata”.
“Le persone che diffonderanno questa devozione avranno il loro nome scritto sul mio Cuore e non ne saranno mai cancellate”.
“A tutti coloro che riceveranno la Santa Comunione nei primi nove venerdì del mese, l’amore onnipotente del mio Cuore garantirà la grazia della perseveranza finale”.

Santa Margherita morì nel 1690 all’età di 43 anni. Trascorsero 166 anni e nel 1856 Pio IX estese la festa del Sacro Cuore a tutta la Chiesa: si celebra otto giorni dopo la Pentecoste.
Nel 1864 Santa Margherita fu beatificata.
Nel 1875 l’arcivescovo di Parigi pose la prima pietra per la Basilica del Sacro Cuore a Montmartre.
Molti paesi furono consacrati al Sacro Cuore.
Nel 1920 Santa Margherita fu canonizzata.

b) Fiducia semplice e amorevole in Dio

Santa Teresa di Lisieux nacque nel 1873, entrò in un convento carmelitano nel 1888. Morì nel 1897 all’età di 24 anni. Per lei, la fiducia semplice e amorevole in Dio porta alla santità:

“Ho sempre desiderato essere una santa, ma – ahimè! – ho sempre constatato, quando mi sono confrontata con i santi, che tra loro e me c’è la stessa differenza che esiste tra una montagna la cui vetta si perde nei cieli e il granello di sabbia oscuro calpestato sotto i piedi dei passanti. Invece di scoraggiarmi mi sono detta: il Buon Dio non potrebbe ispirare desideri irrealizzabili; quindi nonostante la mia piccolezza posso aspirare alla santità. Crescere, mi è impossibile, mi devo sopportare per quello che sono con tutte le mie imperfezioni, ma voglio cercare il modo di andare in cielo per una via bella dritta, molto corta, una piccola via tutta nuova. Siamo in un secolo di invenzioni, ora non vale più la pena di salire i gradini di una scala, dai ricchi un ascensore la sostituisce vantaggiosamente.
Vorrei trovare anch’io un ascensore per innalzarmi fino a Gesù, perché sono troppo piccola per salire la dura scala della perfezione. Allora ho cercato nei libri santi l’indicazione dell’ascensore oggetto del mio desiderio e ho letto queste parole uscite dalla bocca della Sapienza Eterna: Se qualcuno è piccolissimo, venga a me.
Allora sono venuta intuendo di aver trovato ciò che cercavo e volendo sapere – o mio Dio! – ciò che faresti al piccolino che rispondesse alla tua chiamata ho continuato le mie ricerche ed ecco quello che ho trovato: “Come una madre accarezza il figlio, così io vi consolerò, vi porterò in braccio e vi cullerò sulle mie ginocchia!”
Ah! Mai parole più tenere, più melodiose, hanno rallegrato la mia anima: l’ascensore che mi deve innalzare fino al Cielo, sono le tue braccia, o Gesù! Per questo non ho bisogno di crescere, anzi bisogna che io resti piccola, che lo diventi sempre di più»

Fu beatificata nel 1923 e canonizzata nel 1925. Nel 1997 Giovanni Paolo II la dichiarò dottore della Chiesa.

c) Gesù, confido in te

Nel 20° secolo il Signore intraprende una nuova iniziativa. Si tratta di evidenziare la misericordia di Dio Padre che è resa visibile attraverso l’amore di Gesù e la tenerezza del suo cuore.

Nel 1905 nacque Santa Faustina Kowalska, da una famiglia molto povera, entrò in un convento nel 1928, morì di tubercolosi nel 1938 all’età di 33 anni.

Dal 1931 gli apparve Gesù, gli insegnò la preghiera della coroncina della divina misericordia. Gli chiese un dipinto di Lui come gli era apparso, con la mano destra che benedice e con la sinistra che punta al suo cuore e di scrivere sotto “Gesù, confido in te”. E che la seconda domenica di Pasqua fosse la festa della Divina Misericordia.

Tutto è stato raccolto in un diario di oltre 600 pagine, alcune frasi sono le seguenti:
“La festa della Misericordia sarà un rifugio per tutte le anime. In quel giorno, l’anima che andrà alla Confessione e riceverà la Santa Comunione otterrà il completo perdono dei peccati”.
“Prometto che l’anima che venererà questa immagine non perirà.”
“Concederò immense grazie alle anime che pregheranno questa coroncina”.
“Il mio cuore trabocca di grande misericordia per le anime e specialmente per i poveri peccatori. Se solo potessero capire che io sono il migliore dei genitori!”.
“Esorta tutte le anime ad avere fiducia nell’insondabile abisso della mia Misericordia, perché voglio salvare tutti”.
“Quando un’anima si avvicina a me con fiducia, la riempio con una tale abbondanza di grazie che non può contenerle dentro di sé, ma le irradia ad altre anime”.
“Alle anime che diffonderanno la devozione alla mia Misericordia, le proteggerò per tutta la vita come una madre amorevole protegge il suo bambino appena nato”.

Santa Faustina morì nel 1938. Passarono 42 anni … Nel 1980 Giovanni Paolo II pubblicò la sua enciclica “Dives in Misericordia” (Ricco di Misericordia).

Nel 1993, la seconda domenica di Pasqua, Santa Faustina fu beatificata.

Nel 2000, la seconda domenica di Pasqua, Giovanni Paolo II istituì la festa liturgica universale della Divina Misericordia e canonizzò Santa Faustina.

Nel 2005, alla vigilia della festa della Divina Misericordia, morì Giovanni Paolo II.

Nel 2011 Giovanni Paolo II fu beatificato nella festa della Divina Misericordia ed fu canonizzato in quella stessa festa nel 2014.

Nel 2016 Papa Francesco scrisse un libro dal titolo: “Il nome di Dio è misericordia”: “La misericordia è la caratteristica di Dio: la misericordia di Dio è la sua responsabilità per noi. Si sente responsabile, cioè, vuole il nostro bene e vuole vederci felici, pieni di gioia e sereni ”.

Consiglio di pregare la coroncina. Dura 5 minuti. Consiglio anche di ripetere spesso la giaculatoria “Gesù, confido in te”, dà molta pace.

Álvaro Gámiz
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Coroncina della Divina Misericordia

Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

Padre nostro, Ave Maria, Credo

(Io credo in Dio Padre onnipotente,
creatore del cielo e della terra;
e in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore,
il quale fu concepito di Spirito Santo,
nacque da Maria Vergine,
patì sotto Ponzio Pilato,
fu crocifisso, morì e fu sepolto;
discese agli inferi;
il terzo giorno risuscitò da morte;
salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente;
di là verrà a giudicare i vivi e i morti.
Credo nello Spirito Santo,
la Santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi,
la remissione dei peccati, la risurrezione della carne,
la vita eterna. Amen.)

per ogni decina:
Eterno Padre, io Ti offro il Corpo, il Sangue, l’Anima e la Divinità del Tuo dilettissimo Figlio e Signore Nostro Gesù Cristo, in espiazione dei nostri peccati e di quelli del mondo intero.

Per la Sua dolorosa Passione, abbi misericordia di noi e del mondo intero. (10 volte)

Finite le 5 decine:
Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale, abbi pietà di noi e del mondo intero. (3 volte)

Preghiamo
O Sangue e Acqua, che scaturisti dal Cuore di Gesù come sorgente di misericordia per noi, confido in Te.
Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

Prega per me


(en español: http://conempatia.org/2018/04/10/reza-por-mi/)

Pregare è una conversazione con coloro che non ci sono più, il ricordo di coloro che ti hanno preceduto e l’orazione per seguire il loro esempio. Pregare è chiedere per loro. E anche chiedere a loro per noi che siamo qui. E’ il momento di maggior calma del giorno e, nel mio caso, è la prima ora del mattino, poco più delle sei con l’acqua della doccia che cade lentamente sulle spalle.

Pregare è una fotografia in seppia, un ritorno alla casa dei tuoi nonni e al tempo senza tempo della tua infanzia. È passare dalla Chiesa di San Pietro, sulla strada per la scuola, e pregare al Cristo di Burgos un Padre Nostro per chiedere aiuto negli esami. È il rifugio del freddo e il silenzio accogliente. Pregare è avere memoria.

Pregare è ciò che precede o segue il lavoro, e non lo sostituisce mai perché già lo dice il proverbio: “aiutati che Dio ti aiuta”. È l’unica cosa che puoi fare quando ormai non è possibile fare altro, e il modo d’impegnarsi da chi non ha un altro modo per farlo, come quando preghiamo per un paziente che sta per essere operato e ormai è tutto nelle mani del chirurgo (e di Dio). Pregare non fa miracoli, o se li fa, non lo sapremo mai, ma offre consolazione a colui che prega e a colui per il quale si prega. Pregare non è mai inutile, perché sempre conforta.

Pregare è dire pregherò per te e, anche, prega per me. Ed è, quindi, il contrario della vanità. Pregare è l’accettazione dei tuoi limiti. È imparare a rassegnarsi quando ciò che avrebbe potuto essere non è stato. È vivere senza rancore, imparare a dimenticare, accettare la sconfitta con dignità e celebrare il trionfo con umiltà. Pregare è rassegnazione quando procede, ma anche scatto e fierezza quando tocca. È cercare le forze se non si hanno e pensare che alla fine le cose saranno come dovrebbero essere. Pregare è ottimismo, non dare niente per perso, lottare e resistere, è mio padre prima di morire. Pregare è fragilità e vigore.

Pregare è rimarginare le ferite, superare il danno che ti hanno fatto. Girare pagina e ricominciare da zero. Perdonare le offese e anche chiedere perdono. E soprattutto avere gratitudine. Pregare è rendere grazie per vivere e per quello che la vita ti ha dato. È svegliarsi con illusioni rinnovate. Aggrapparsi disperatamente all’immateriale. Ricordarsi di ciò che conta davvero e relativizzare tutto il resto. È stabilire le priorità, mettere in ordine le carte del tuo tavolo, cercare la trascendenza, pensare in grande.

Pregare è staccare e spegnere il cellulare. È introspezione nella società dell’esibizionismo. È rilassarsi e calmare i nervi. E prepararsi mentalmente per quello che verrà. Non è solo cercare il coraggio, ma anche l’ispirazione, l’idea, l’impostazione, la luce, il chiaro in mezzo alla giungla. Pregare è ragionare, anche se sembra la cosa più irrazionale che esista. È la mente in funzione come quando giochi una partita di tennis. È pianificare e anticipare le mosse. È astrazione nei tempi dello concreto e dello materiale. È pausa in un mondo eccitato. È calma quando tutto è ansietà. Ed è noioso nella dittatura dello divertente.

Pregare è una forma estrema di indipendenza, un’attività quasi di controcultura, la cosa più “punk” che si possa fare nel pomeriggio di una domenica. È il modo più radicale di praticare “mindfullness”, così obsoleto che qualche giorno diventerà straordinariamente “cool”. Pregare potrebbe essere computato come ore di lavoro per i dipendenti pubblici, ma non lo si fa perché è una pratica “anti-sistema”, senza alcun riconoscimento dell’”establishment”. Così politicamente incorretta che la gente nasconde che prega come nasconde la pancia per la foto. Pregare è un piacere occulto, che si riserva per l’intimità. Un atto privato che, quando si fa accompagnato, ha bisogno di un po’ di oscurità e molta, molta, fiducia.

Pregare è spogliarsi e aprire la tua anima alla persona con cui preghi. Ed è una dichiarazione d’amore per la persona che hai nelle tue preghiere. È versare il tuo affetto su quelli che ami di più e provare l’affetto di coloro che pregano per te. Pregare è avere altri nelle tue preghiere ed stare nelle preghiere degli altri, che è molto di più che stare solo nella sua memoria. Pregare, e soprattutto che preghino per te, è la più grande aspirazione che si possa avere nella vita. Un privilegio immenso. È volere tanto bene a qualcuno come per pregare per lui, e che qualcuno te tenga tanto a cuore come per pregare per te. Può esistere maggior orgoglio? Esiste maggiore pienezza di quella di sapere che c’è una madre, un fratello, un figlio o un amico che vuole che Dio ti protegga, e ti conceda la salute, e ti illumini, e ti aiuti, e ti accompagni, e sia sempre con te?

Pregare è avere fede. Avere fede nella vita, nelle persone, nei tuoi amici, nei tuoi figli, nei tuoi genitori, in Dio. È un super potere che ci predispone al bene. Pregare è credere in un mondo migliore.

Miguel Angel Robles, professore di comunicazione nell’Università Loyola di Siviglia
Abc di Siviglia, 11 marzo 2018
Testo originale in spagnolo: http://conempatia.org/2018/04/10/reza-por-mi/

Note esperienziali sulla comunicazione della fede (Don Fabio Rosini)

Mi si chiede di trattare l’argomento dell’attuale stato del linguaggio della comunicazione della fede. Credo sia opportuno partire da una constatazione: questo linguaggio sembra essere in molti casi fallimentare, inefficace, non attraente.

La colpa, mi sembra necessario riconoscerlo, è del nostro stile di annuncio. Il problema siamo noi. Cercherò di menzionare, a peso, senza troppa analisi, i tipi di difetti che la nostra predicazione presenta a mio avviso.

Quanto vado ad enumerare non ha nessuna pretesa di esaustività. Sono solo i punti principali, esposti in grande sintesi, macroscopicamente evidenti, se si vuole fare un’analisi di massima della situazione.

1. Difetto fondamentale e diffusissimo è presupporre la fede negli ascoltatori; spesso ci si ritiene investiti dell’autorevolezza sacramentale che l’ascoltatore non riconosce, anzi non conosce proprio.

Direi che la colpa principale di questo approccio è la scarsa considerazione che l’ascoltatore e la sua condizione reale trovano in chi predica. L’assemblea, ad esempio di un matrimonio, è distratta, superficiale, estranea alla liturgia? E chi se ne avvede? Il sacerdote è partito nella sua descrizione della fedeltà prima battesimale e poi nuziale all’alleanza con Dio, parla della grazia che è donata nel sacramento, della vocazione salvifica della famiglia, mentre oramai molta gente non riesce nemmeno a capire il contenuto logico del lessema “sacramento”, o “grazia”, o “salvezza”. Una cosa sola l’uditorio ha per certa: che presto o tardi il prete smetterà di parlare. Possiamo parlare di coincidenza topografica fra predicatore e assemblea, ma non c’è molto di più in comune fra le due parti. L’assemblea non capisce il predicatore, e il predicatore non ha provato a capire l’assemblea.

2. Una fetta non piccola dei nostri sforzi predicatori viene sperperata in due filoni di un vecchio approccio:

a. Il vetero-moralismo, che per un’inerzia secolare da controriforma, insiste sulle opere, spossando l’ascoltatore con la pressione della pretesa. Il difetto maggiore di quest’approccio: se l’agire è conseguenza dell’essere, diventa ridicolo chiedere di agire cristianamente a chi cristiano, forse, non è se non in parte ancora tutta da verificare, perché spesso non è stato formato ad esserlo. Se infatti ripetiamo spesso che la crisi del popolo di Dio è la sua formazione carente, come pensiamo di poter risolvere il problema partendo dal pretendere i risultati? In ogni caso, per definizione, il linguaggio moralista non può essere il linguaggio dell’annuncio.

b. Il neo-moralismo, che confonde il cristianesimo con la forza di volontà, e scivola in approcci stile new-age, ponendo tutta la forza della redenzione nella ‘decisione’ come fulcro salvifico. In fondo a Gesù Cristo non rimane altro ruolo che quello di stimolo, di causa solo ed unicamente esemplare.

3. Molte occasioni vengono altresì sprecate in funzione di un peccato tipicamente clericale, una vanagloria ecclesiastica dura a morire, che definisco teologismo astratto. Mentre la gente aspetta di essere coinvolta nella spiegazione della Parola di Dio, ecco che prorompe la libido teologica e si affonda in una serie di precisazioni da algebra dogmatica. Si è, di conseguenza, precisi ed elevati, quanto inutili e noiosi.

4. Ma come non citare anche un altro filone, trionfante e diffuso: il sentimentalismo. La ricerca metodica del punto erogeno nell’ascolto e la tecnica sonora di avviluppante melassa, che tocca la zona certa dell’emotivo, del lacrimevole. Certe pause, certi toni, anche se diametralmente opposti allo stentoreo della vecchia retorica, hanno però in comune lo stesso orribile difetto di fondo: suonano falsi. Ormai questa tecnica è comune ai preti e ai politici. In certo senso viene da chiedersi se sia Veltroni che parla da prete o i preti che hanno da tempo sposato una comunicazione buonista-veltroniana. In questi modi non si è ‘persona’, ma ‘personaggio’. Con tale tecnica non si fa un annuncio ma si da luogo ad un evanescente momento ormonale-impulsivo.

5. Non possiamo tralasciare la fresca generazione dei predicatori provenienti dalle nuove esperienze ecclesiali, movimenti e simili. Qui il difetto è di altro genere, quello di scivolare dal tono kerigmatico-passionale allo stato di espettorazione ripetitiva dello slogan catechetico appreso nel proprio movimento: puoi avere davanti anziane del rosario, fanciulli del catechismo o coppie di fidanzati, la polpetta è la stessa, gli esempi sono gli stessi, i decibel impiegati sono gli stessi. E il senso di estraneità dell’uditorio pure.

6. Di pari passo procede un simile risultato di derivazione più semplice e banale: uno si trova quei quattro schemi che gli sembrano funzionare, e ormai da anni li emette a selezione random. Lentamente ogni predicazione scivola verso questo imbuto precostituito e si finisce per suonare sempre la stessa solfa. È un difetto da replica semi-ossessiva (soprattutto per l’ascoltatore) del rassicurante schema già noto. In poche parole: una mancanza di creatività che genera ripetitività.

7. E che più? Parlando di mancanza di creatività viene in mente un’altra negligenza con cui molti porgono la predicazione: se anche il discorso è azzeccato nella sostanza, si autosqualifica per un difetto essenziale, quello di un tono monocorde. Chissà perché si pensa di avere risolto il problema di una spiegazione del Vangelo quando ne abbiamo identificato i contenuti. A quel punto, invece, abbiamo il bisogno di passare alla fase non meno importante dell’attenzione alla modalità espressiva, della cura della “musica” delle parole, perché di fatto è la cosa che più direttamente influisce sull’ascolto. La parola udita, prima di essere senso, è suono. Certi preti sono così negligenti sulla musica delle proprie parole, sono così concentrati sul significato, e così piatti sul livello sonoro, da divenire prepotentemente, implacabilmente soporiferi. È anche questo un ministero, quello del riposo.

Abbiamo finito? No, certo che no. C’è tanto altro di cui intristirsi. Ma a ben vedere questi sono, tutto sommato, difetti umani che si riflettono nel linguaggio.

Perché dire ciò? Perché in modo costante mi trovo di fronte a responsabili ecclesiali di vario livello che venendo a sapere del felice impatto che l’esperienza sui 10 comandamenti ha sulla gente, mi chiedono aiuto, ma fondamentalmente mirano ad uno specifico risultato: avere gli schemi.
E io mi lancio ogni volta nella difficile esplicazione dell’inutilità di tale richiesta. Riuscirò a spiegarmi questa volta? Mah…

Ci riprovo per l’ennesima volta e faccio l’esempio che di solito uso: si cerca uno schema funzionante, un’idea che impatti, e si tenta di trovare una formula nuova ed efficace, una ricetta che possa alzare il livello della cucina. Come si cerca lo spartito di una musica che sia più gradevole, più bella, più geniale.

E allora? Mettiamo che io tiri fuori lo spartito della Settima sinfonia di Beethoven. La musica, lo spartito, lo schema è straordinario. Ma chi lo suonerà? Se a quel punto prendo il flauto dolce e ci suono la Settima di Beethoven, sarà un’esecuzione allappante e ridicola.

Tutti cercano gli spartiti, ma in realtà il problema sono gli esecutori. Anzi, corriamo il rischio di giudicare orribile la Settima di Beethoven, mentre orribile è solo l’esecuzione.

Si cercano contenuti, e a me sembra che la nostra bellissima fede ce ne dia a bizzeffe. 10 comandamenti? Per ora si può fare questo, ma forse fra un po’ si deve fare altro. Qualunque argomento può essere reso in modo vitale. Se Pollini suona l’orribile inno di Mameli, te lo fa sembrare bello.

Allora cortocircuitiamo con quanto detto sopra: difetti umani. Qui non si tratta di avere nuove idee ma un tratto predicatorio diverso.

Cosa ce lo può fornire? È chiaro che abbiamo bisogno di lavorare profondamente a livello della formazione, dove si apprende lo stile. Ma quali possono essere i principi cardine?

Discutiamone; io propongo le mie povere intuizioni in materia, ma se non spostiamo l’argomento su questo livello, restiamo sempre al palo.

Offro il poco che io ho capito e che forse può essere utile.

Quale linguaggio può farci uscire dallo stato di stallo? Dobbiamo chiederci se disponiamo di un linguaggio più adatto alla presente generazione che è quella del post-concilio e dell’era post-moderna. Va detto che fra le tante note caratteristiche di questo popolo dell’oggi, una non trova, a mio avviso sufficiente evidenza: siamo di fronte alla prima generazione alfabetizzata della storia.

Si trovano ancora nei nostri monasteri di clausura delle anziane religiose che leggono a fatica. Ma la generazione presente, fatto assolutamente nuovo, è certamente in grado di leggere e scrivere. E ha un nuovo modo di ascoltare, anche perché la nuova religione, che è la scienza, panacea di ogni problema umano, rende gli ascoltatori critici come mai verso l’argomento religioso.

E che linguaggio possiamo proporre? Vediamo: quali linguaggi ha la Chiesa? Meglio ancora: quali linguaggi sono messi a disposizione della Chiesa dalla Rivelazione? Voglio introdurre la tematica dei tre linguaggi della Rivelazione.

L’A.T. dispone, a grandi linee, delle celeberrime tre parti: Legge, profeti e scritti. Nella legge abbiamo il linguaggio apodittico o casistico ma comunque nomistico, definitivo, imperativo. La norma è uno slogan, una formulazione secca che o la si accetta o la si rifiuta, la sua forza è nell’autorità dell’emittente, Iddio stesso.

Nei profeti abbiamo l’esortazione, l’applicazione al quotidiano dello slogan della legge. I profeti ricordano i doveri dell’alleanza al popolo. Il linguaggio profetico è eminentemente morale, il carattere è quello dello sprone alla coerenza con la legge. La cogenza del linguaggio profetico è la condizione di popolo dell’alleanza. La congruenza etica è la potenza di questo linguaggio.

Negli scritti compare un altro linguaggio, quello sapienziale, esplicativo, educativo. È il linguaggio paterno, educativo, che spesso basa sulla logica e sulla constatazione del reale la sua forza di convincimento. Senza sfociare nel filosofico, il linguaggio sapienziale non comunica regole, non impone doveri ma motiva, spiega, rende semplicemente accettabile il richiamo della legge, che risulta luminoso, opportuno, utile, produttore di felicità.

Il N.T. non presenta, sorprendentemente, un cambio di linguaggi ma una semplice traslazione di occasioni. Lo slogan della legge diventa la formulazione del linguaggio kerigmatico, che è la ripetizione di formule che pian piano divengono stereotipate, e racchiudono come seme tutto lo sviluppo della fede. Sono enunciazioni che rinveniamo sparse fra i racconti della resurrezione, le lettere paoline, soprattutto gli Atti degli Apostoli. Brevi locuzioni, nette, pregnanti. Chiedono l’assenso, pongono davanti alla scelta di aprirsi o meno.

L’esortazione profetica, a sua volta, diviene il linguaggio parenetico tipico del richiamo paolino, ma anche di altri scritti. Questo è il linguaggio etico, della esortazione alla coerenza con la fede nell’agire, a vivere secondo l’uomo nuovo.

E quale è il linguaggio che sta fra le due fasi, quello che copre lo spazio fra l’apertura alla fede e la fede ricevuta in pieno, ormai da praticare? Quello che nell’A.T. è il linguaggio sapienziale, diviene nel N.T. il linguaggio didascalico. Il discorso fatto alla ragione perché assimili il kerigma, lo possieda, lo arrivi ad incarnare; le istruzioni per l’uso e l’appropriamento dell’evento salvifico. La parola che istruisce, ammaestra, spiega, rende masticabile e digeribile la salvezza cristiana.

Una nota storica: da Trento in poi, fino al Vaticano II, avevamo solo ed unicamente il linguaggio morale parenetico, che spesso diveniva moralista, ma che, in una società fondamentalmente già convinta di cristianesimo, esortava alla coerenza.

Grande riscoperta pratica del tempo del Concilio è la riproposizione, dopo secoli di assenza, del linguaggio kerigmatico, sotto l’influsso di due spinte: l’aver rimesso al centro della teologia il mistero pasquale e la prassi, non ininfluente, dei movimenti, tendenzialmente molto kerigmatici.

Il kerigma, in se per se, è formulazione univoca ed inequivocabile, ma il suo rischio è un uso che ne dimentichi la natura di “seme”, di punto di partenza. Non si mangia un seme, ma da un seme si deve partire per poter arrivare a mangiare un frutto. Il seme va coltivato, assecondato nei suoi tempi di maturazione, e per quanto sia vero che un seme contiene un albero, è altresì vero che un seme non è un albero. Perché dire ciò? Perché la fase kerigmatica deve essere preludio ad una fase didascalica, altrimenti parliamo di vera e propria sterilità, paradossalmente, per abbondanza di semente.

Siamo di fronte ad una sovrabbondanza di annunci kerigmatici a motivo di un tutt’altro che disprezzabile sforzo predicatorio messo in atto da movimenti, iniziative delle diocesi, missioni giovanili e simili, cui dovrebbero corrispondere altrettante iniziative didascalico-formative. Invece si salta spesso dal kerigma alla parenesi, al volontariato, al frutto senza fusto e corteccia, direttamente senza passare dal ‘via’…

Cosa è una mentalità didascalica? Cosa è un’intelligenza formativa? Quali sono le caratteristiche di un’efficace operazione di autentica iniziazione? Mi sembra che questo sia il vero dito nella piaga della pastorale. Siamo tutto sommato capaci di esporre come la Parrocchia debba essere, ma non sappiamo cose si fa per portarla ad essere come la prospettiamo.
E continuiamo ad affastellare documenti sull’immagine della parrocchia, sul tipo di configurazione collaborativa fra pastori e corresponsabili della pastorale, in una sorta di neo-hegelismo ecclesiale: ci è chiaro come si dovrebbe essere, ma in genere non si sa come arrivarci.

E allora il linguaggio della stragrande maggioranza dei predicatori resta parenetico, esortativo, tutto sulla coerenza, tutto sul bene da fare. E gli ascoltatori chiudono l’audio.

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Quali sono le caratteristiche di una comunicazione virtuosa, efficace? Cominciamo col controbilanciare i difetti già esposti: è anzitutto urgente non presupporre la fede in chi ascolta. Questo facilita il linguaggio didascalico, perché parlare pensando di aver davanti persone che non possiedono le categorie religiose ci aiuta a sdoganare naturalmente il linguaggio da una fase assiomatica ad una zona di traduzione, per così dire, dei concetti.

A tal proposito va ricordato che le forme del linguaggio umano sono fondamentalmente tre: i linguaggi di tipo univoco, equivoco ed analogico.

Univoco è il linguaggio, ad esempio, scientifico, che per una convenzione prestabilita usa i termini in modo coerente con detta convenzione, e qui ci imparentiamo con le espressioni nomistiche prima, e kerigmatiche poi, univoche, assiomatiche, apodittiche. Va detto a tal proposito che i nuovi linguaggi intra-ecclesiali, quelli che si vanno creando in certi contesti come inconsapevoli convenzioni linguistiche, diventano facilmente le gabbie in cui questi gruppi dal linguaggio stereotipato e riconoscibile si chiudono involontariamente, e spiegano l’attuale incontrovertibile crisi di nuove adesioni nei movimenti. Il linguaggio interno, dopo aver avuto il felice impatto della novità, diviene invece carcere comunicativo, dove la Parola viene ingabbiata dalla parola, quest’ultima essendo stata un tempo felice analogia, ora fungendo da struttura di sicurezza del predicatore inesperto o poco riflessivo, nello stesso tempo fungendo da barriera impenetrabile. Sia detto che comunque questo è un difetto diffusissimo, laddove si stabiliscano convenzioni linguistiche da appartenenza, fatto, questo, quasi impossibile da evitare se l’appartenenza è percepita come vitale, salvifica. Il linguaggio però non può essere sovradimensionato a totem intoccabile, dove non si possa riformulare quanto esposto, perché si passa dal presupporre la fede a presupporre addirittura uno specifico linguaggio della fede. Siamo al paradosso.

In sostanza: il linguaggio univoco, convenzionato, che sia quello accademico, o teologico, o di appartenenza si dimostra facilmente come fallimentare.

Breve trattazione richiede il linguaggio equivoco, essendo questo artifizio di tipo artistico o comico. È infatti il linguaggio poetico, oppure ironico, quello che varca le regole della logica per darci il paradosso, l`“oltre” della lingua, oppure la comicità. Questo è un linguaggio ingiustamente disprezzato dagli anziani predicatori, e spesso usato male dai giovani. Gli anziani erano troppo inchiodati al “dignitoso” per passare per l’assurdo e il comico; i giovani spesso dimenticano che un paradosso o un elemento ironico devono, per definizione essere nuovi, freschi, altrimenti diventano essi stessi convenzione noiosa.

Ma il linguaggio principe di ogni comunicazione valida è, e non può che essere, il linguaggio analogico. Questo è il linguaggio più efficace per definizione. La forza di un annuncio è nelle analogie impiegate. Si capisce meglio un esempio indovinato che un intero discorso coerente e logico ma privo di analogie. Se la nostra emergenza è lo sdoganamento dei contenuti della fede dal linguaggio religioso alla accessibilità per un uditorio post-religioso quale il nostro, la condizione obbligata è il linguaggio analogico.

È la scelta degli esempi che convoglia l’attenzione all’uditorio. Se l’esempio tocca l’ordinario o il vissuto storico dell’ascoltatore, quest’ultimo balza dentro le mie parole, si sente capito e mi vuole capire, perché in un istante gli sono diventato intimo, coinvolgendolo con un esempio in cui lui si muove bene.

Tutto il mio intervento sarebbe a buon fine se solo questa idea passasse: quando si comunica, metà del valore della comunicazione sta negli esempi impiegati, che non vanno solo preparati. L’esempio più efficace è quello che la presenza, il magnetismo dell’uditorio stesso provoca in chi annunzia la Parola.

Come salvarsi dalle comunicazioni moraliste di vario stampo? Dobbiamo ricordare che il moralismo, questo senso latente di esigenza che preme sull’ascoltatore, deriva buona parte delle sue polveri da una sopravvalutazione della volontà. L’imperativo categorico kantiano perde ogni partita contro un altro elemento pure tanto fedele alla nostra tradizione cristiana: il desiderio.

Quanto predico posso presentarlo come giusto o come bello. Il bello avrà la meglio in ogni caso. Allora il tema patristico del ‘fascinans’ torna quanto mai proficuo in un mondo narcisista ed estetizzante come il nostro. Mi preme quindi di trovare meno la doverosità di quanto predico e molto di più la bellezza di quanto propongo. Proporre una scalata di una montagna per imparare l’abnegazione del sacrificio fisico ha pessimo gioco se confrontato col proporre la scalata della stessa montagna per il gusto dell’avventura, per la bellezza del paesaggio, per l’obbiettivo di arrivare alla meta e via dicendo. Quante volte l’annuncio si snoda verso un terreno molto più interessante quando semplicemente si introducono domande: ma perché fare questo? Cosa c`è di bello in questo? A cosa mi può servire? Questa, eminentemente, è tecnica sapienziale-didascalica.

Alla fin fine possiamo dividere i vari difetti della predicazione nei due poli della comunicazione, il predicatore e l’ascoltatore, e identificare teologismo astratto, fissità da slogan catechetico o da mancanza di creatività e tono monocorde come polarizzazioni eccessive sul predicatore il quale difetta nel varcare la soglia della propria autocomprensione, e disattende ogni realtà che non sia il contenuto che vuole comunicare. Questo contenuto è il suo assoluto, e, ahimé, in un modo o in un altro vive in uno sterile autismo comunicativo.

Dall’altra parte, moralismo di qualsivoglia guisa e sentimentalismo sono avventure predicatorie tutte disegnate sull’ascoltatore che è ora sottoposto ad esigenza schiacciante, ora strumentalizzato dalla melassa sentimentale.

Questi difetti comunicativi possono essere risolti da un linguaggio didascalico che si snodi per analogie, ma vorrei fornire due ulteriori elementi costruttivi per questo scopo.
È assolutamente urgente imparare ed insegnare, o perlomeno portare alla coscienza formativa, il fattore della musica delle parole usate.

Per insegnare ad alcuni collaboratori a cambiare musica alcune volte li ho traumatizzati costringendoli a riascoltare una registrazione di una propria predicazione. Io stesso, se mi riascolto, mi trovo inascoltabile, ed è una piccola sofferenza a cui ogni tanto mi sottopongo per avere ben presente i miei difetti comunicativi, le mie lentezze, le mie ingenuità, le mie esagerazioni, le mancanze di mordente, i toni mosci e quant’altro. In questo senso bisogna pervenire ad una sorta di comunicazione uditiva, ove il primo ricettore della predicazione è proprio il predicatore.

Questo essere seduti davanti a se stessi ad ascoltarsi, questo dire le cose come vorremmo sentircele dire ci può insegnare un ulteriore livello qualitativo, quello in cui la comunicazione non è del tutto predeterminata ma definita, nella sua realizzazione concreta, dall’olfatto dell’assemblea, una sorta di fiuto che permette di capire chi si ha davanti e cosa possa recepire.
In tal senso, ben inteso, l’uditore non può determinare il contenuto, altrimenti l’oratore é un comunicatore subdolo, ipocrita o senza personalità, ma l’uditore deve determinare la forma della comunicazione, almeno in parte. Di certo la musica delle mie parole la devo saper mutare secondo il contesto.

E arriviamo all’ultimo elemento: noi comunichiamo sempre attraverso generi letterari. Voglio ricordare una legge della lettura dei testi che diventa proficua coordinata comunicativa al momento di emettere un testo, anche solo parlato: nei testi il contenuto si rinviene costantemente nella rottura del genere letterario. Mi spiego, e forse non è azione necessaria per chi ha avuto lo stomaco di ascoltarmi finora: ogni comunicazione ha il suo latente genere letterario di riferimento. Se io parlassi rispettando seccamente, pedissequamente, il genere letterario, la mia comunicazione risulterebbe la più noiosa possibile. Infatti i generi letterari sono schemi inconsapevoli che noi usiamo nella comunicazione come strutture prefabbricate atte a fornire uno schema, uno scheletro alle nostre articolazioni comunicative. Ma se vengono rispettati del tutto, essendo convenzioni comuni, sono assolutamente prevedibili.

Quando analizzo un racconto di miracolo, ad esempio, cerco la violazione dello schema, l’imprevedibile del testo, l’elemento fuori genere, perché è proprio li che risiede la comunicazione.
Allora è quanto mai efficace divenire gestori consapevoli di cotanta legge della trasmissione del senso: la rottura del genere letterario è necessaria alla comunicazione, la rottura dello schema permette l’ascolto. Si deve sempre dire, paradossalmente, il contrario di quanto si dice, ossia: devo usare uno schema che faccia da sfondo di contrasto a quanto voglio dire.

Non dimentichiamo che il Signore Gesù si è incarnato in una cultura semitica, e di questa cultura ha assunto una caratteristica, e l’ha sposata forse come nessuno: il linguaggio paradossale. Impossibile leggere i Vangeli se non si è disposti ad affrontare i paradossi. Quando si leggono i Vangeli, fra le molte cose a cui si può essere portati, di certo si è portati a pensare. Tocca restarci con la testa su. Gesù, per quello che ci resta della sua comunicazione, ci costringe ad ascoltarlo. Era un maestro. Un didàscalo. E parlava in parabole, ossia con analogie. E rompeva gli schemi comunicativi. Questo è saper parlare!

Don Fabio Rosini

Come parlare di Dio oggi (Garrett Johnson)

La vita come un grande parco giochi, spensierata, senza regole né autorità. Ovvero non parlatemi di passato, patria, genitori, perché io vivo adesso. E adesso sono il re della mia vita.

Un’occhiata veloce alla cultura giovanile contemporanea porta a chiedersi: come parlare di Dio oggi? Come essere autentici evangelizzatori nella Nuova Evangelizzazione?

1) Parlare di Dio non è mai stato facile, né mai lo sarà. Nel momento in cui Dio diventa attraente come l’Iphone significa che non siamo più davanti al Dio che Gesù ci ha rivelato, ma piuttosto a qualcuno che assomiglia al messia atteso da quelli che lo misero in croce.

2) La meraviglia attrae, la predica allontana. Quando si tratta di parlare di Dio nessuno può dirsi maestro, e chi si comporta come tale finisce per irritare il prossimo. Dobbiamo invece avere l’atteggiamento dei bambini, colpiti di fronte alla meraviglia di un mistero che ci ha conquistati e si è impadronito della nostra esistenza; essere come Mosè quando si tolse i sandali davanti al rovo in fiamme. O come il discepolo che corre dall’amico per dirgli “vieni a vedere!” (Giovanni 1,46). Questo stupore è il centro della passione e il fuoco interiore che ci spinge ad incendiare il mondo intero.

3) Sapere perché si sta parlando. Nella cultura contemporanea, il perché interessa poco. Vogliamo risultati, soluzioni, efficienza, e così via. Parlare di Dio, oggigiorno, a che serve? Che problemi ci risolve? Anzi, è proprio il contrario: riconoscere la presenza di Dio spesso complica le cose. Ma su questo punto dobbiamo adottare una logica diversa: Dio non esiste per servire o per essere utile, quanto piuttosto per essere servito. Paradossalmente, nella misura in cui serviamo, riceviamo. Ma funziona in quest’ordine. La Nuova Evangelizzazione comporta certamente che rinnoviamo il come, ma se non ci rinnoviamo sul perché, finiremo per cadere in una sorta di attivismo entusiastico che prima o poi si esaurirà.

4) Sapere a chi si sta parlando. Non c’è difetto più grande, quando si fa apostolato, che parlare prima di avere ascoltato. Al contrario, quello che diciamo dovrebbe essere in risposta a quello che si è sentito. Si tratta di ascoltare non soltanto le parole che vengono dette, ma di sapere “leggere” i desideri, i timori, le storie, i sogni. Come disse il teologo Karl Barth, una buona predica andrebbe fatta con la Bibbia in una mano e un quotidiano nell’altra. E’ impossibile fare un buon apostolato se non si capiscono la cultura, le persone.
Dovete chiedervi quanto vi siete sforzati di capire la cultura contemporanea e a chi vi rivolgete. In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo (Gaudium et Spes, 22).
Attenzione però a non dipendere dai sedicenti “esperti” in materia di gioventù. Le ricerche psicologiche – per quanti miliardi vi si investano – rivelano alcune caratteristiche dell’uomo, ma non potranno mai sostituire la conoscenza dell’umano, a cui invece possiamo arrivare attraverso Cristo. La vera “esperta in umanità” è la Chiesa, perché offre il messaggio di Cristo. Egli conosce il cuore dell’uomo e solo ascoltando Lui capiremo come penetrarlo.

5) Non stancarsi di cercare metodi creativi. Quante nottate passano i pubblicitari della Coca Cola a spremersi le meningi per capire come fare breccia nel pubblico? Facciamo lo stesso anche noi? I nuovi media sono fondamentali. Per qualche strano motivo, ricorrendo ai sistemi tradizionali possiamo ripetere un concetto anche 50 volte senza che nessuno ci ascolti. Prendete per esempio questo padre di famiglia che non riusciva a far capire ai figli che devono sostituire il rotolo di carta igienica una volta esaurito: siccome non lo stavano a sentire ha deciso di fare un video, che fino adesso è stato visto da 4 milioni di persone.
Tenendo presente il punto 4, non possiamo ignorare il tempo mediamente speso da una persona sui social media. Un apostolato basato anche su questi strumenti non sostituirà mai l’incontro faccia a faccia, ma ha un ruolo nell’evangelizzazione moderna.

6) Attenzione al linguaggio. Tendiamo a dare per scontati certi termini, ma nell’odierna società secolarizzata dobbiamo andar cauti. La Parola “peccato” implica almeno una cinquantina di significati che però non corrispondono più ormai a quelli dell’immaginario collettivo. Ciononostante le parole restano una categoria fondamentale, che va spiegata: meglio cominciare ricorrendo a termini, realtà e immagini più familiari. Per esempio al concetto di “sofferenza”. O di “ingiustizia”. Fate appello a quella voce interiore che agisce in ogni persona e gli dice: “non dovrebbe essere così”. Iniziate in questo modo e progressivamente introducete il concetto di peccato, spiegando che cosa intendiamo con esso.

7) Prima domandare, poi rispondere. Dobbiamo applicarci nell’arte di fare le domande giuste. Quando poniamo una domanda, noi coinvolgiamo l’altro, gli facciamo assumere un ruolo attivo. Fare una domanda è come allestire un palcoscenico e invitare l’altro a salirvi sopra. Ma è importante insegnare a fare le domande giuste, a cercare la verità, a guardare dentro se stessi per riflettere sui misteri della vita umana. I giovani, oggi, hanno sviluppato forti anticorpi nei confronti delle questioni più profonde sull’esistenza. Sta allora a noi incoraggiarli a porsi, liberamente e seriamente, queste questioni: solo dopo potremo cominciare a condividere i frutti della nostre riflessioni.

8) Apostolato è (principalmente) mostrare ciò che è nascosto, ma c’è. Discorsi troppo alti e difficili su Dio al giorno d’oggi non trovano terreno fertile: il che non significa che dobbiamo abbassarne il livello ma piuttosto trovare il modo di trasmettere la ricchezza che deriva dalla nostra fede in termini familiari. Le persone vogliono che si parli con loro e di loro, non a loro. Non si tratta di sacrificare l’autenticità del Vangelo per risultare più attraenti, ma di seguire l’esempio di Paolo (Atti 14, 16-17): annunciare Colui che è già presente tra noi. Invitare a scoprire Dio dall’interno, non da fuori. Insegnare ad ascoltare i desideri del proprio cuore, il bisogno di amore, di infinito, di mistero, di verità e di bellezza. Chiedete alle persone da dove vengono questi desideri e dove puntano. Aiutateli a scoprire che la Fede risponde a ognuno di questi desideri, che solo Cristo corrisponde pienamente alle loro esistenze.

9) Stupirsi per la presenza di Dio nell’altro. Troppo spesso ci facciamo condizionare dalla prima impressione e dal nostro modo di vedere le cose: una visione troppo negativa o pessimistica della cultura di oggi – per quanto difficile possa di fatto essere la situazione – non deve mai impedirci di guardare obiettivamente l’altro, di scoprire in lui la presenza attiva e amorevole di Dio.

10) Il cuore è il nostro miglior alleato, anche con i nostri “avversari”. L’apostolato è sempre un atto di cooperazione. Dio ha avviato il percorso dell’uomo verso di Lui al momento della creazione. Le profondità della realtà umana sono state fatte da e per Dio. Quindi gli elementi autenticamente umani stanno dalla nostra parte, perché tutto ciò che è autenticamente umano è stato assunto e riconciliato con l’incarnazione di Gesù Cristo. Nel momento in cui considero l’altro come un avversario anziché come un fratello o una sorella che sto cercando di avvicinare a Cristo, ho perso. Anche chi si oppone apertamente alla Chiesa di Cristo va trattato come il figliol prodigo, e mai come un “diverso” ostile, per quanto egli possa comportarsi come tale. Anche qui, non significa abbandonare la battaglia culturale né arrendersi davanti a chi cerca di introdurre situazioni di rottura nella società. Al contrario, motivati dall’amore per i nostri fratelli e sorelle, dobbiamo essere instancabili nello sforzo di evangelizzare. La guerra culturale al Cristianesimo è un dato di fatto, basta osservare i cristiani perseguitati, anche oggi: ciò detto dobbiamo “combattere” con lo stesso amore di Cristo crocifisso, puntando alla conversione più che alla vittoria così come la intende il mondo.

11) Prima incontrare, poi cambiare. Parlate innanzitutto con i vostri gesti di carità, con il vostro atteggiamento amichevole. Portate il soggetto del vostro apostolato a un incontro con l’amore e lasciate che sia questo amore a dare i frutti della conversione morale. In un mondo popolato di ideali, noi dobbiamo restare saldi nell’etica cattolica e nella dottrina sociale: quando cerchiamo di accompagnare gli altri verso queste verità dobbiamo seguire l’esempio di Cristo e Zaccheo (Lc 19, 1-10). Zaccheo era un pubblico peccatore, non soltanto un avido ma anche un traditore, in quanto collaboratore dei Romani. E Gesù cosa fa? Gli grida: “Sei un imbroglione, un falso, un ladro!”? Niente affatto. Lo invita a mangiare insieme, segno del perdono e della gratuita comunione con Dio. Di che parlarono? Non si sa con certezza, ma è facile supporre che Gesù gli abbia fatto intendere che lo capiva, che conosceva le sue difficoltà e i suoi peccati, ma che ciononostante lo amava. L’incontro con questo amore trasforma Zaccheo e gli dà motivo e forza per cambiare.

12) Incontro significa contatto. La tecnica apostolica di Cristo stava nella Sua incarnazione. Egli non parlava dall’alto. Non ha mandato i suoi comandamenti via email, nè ha pubblicato un manuale di vita cristiana. É venuto. Ha permesso di essere visto, udito, toccato. Uno dei paradossi più grandi della cristianità sta proprio nel fatto che il messaggero è più importante del messaggio.
O, se preferite: il Messaggero è il Messaggio.
Il modo migliore per parlare di Dio, per fare apostolato, consiste nell’entrare in contatto con le persone. Incarnatevi, entrate nelle loro esistenze, passate del tempo insieme, camminateci insieme nella vita di ogni giorno. Non rimandatele a un sito o alla lettura di un libro, ma lasciate che ascoltino la fede dalla vostra bocca, che vi vedano in azione e che tocchino con mano questa fede attraverso l’amore che date loro. Quando si evangelizza, le facce contano più delle idee.
Infine, questo incontro-contatto si realizza con la preghiera. Ironicamente, il miglior modo con cui parlare di Dio sta nel condurre a Lui e poi tacere. Certo, di questi tempi pregare non viene facile a molti – specialmente ai più giovani – sebbene non sia sempre così e le eccezioni fortunatamente non manchino. Ciò detto, se non puntiamo a portare gli altri all’incontro diretto con Dio attraverso la preghiera e i sacramenti, siamo completamente fuori strada.

13) Non si dà quello che non si ha. Forse questo dovrebbe essere il punto numero 1 della lista. Evangelizzare è molto di più che condividere idee, è piuttosto condividere una relazione, offrire alle persone l’amicizia con Cristo. Se non siamo appassionatamente innamorati di Cristo, se non ci siamo lasciati catturare dal Suo mistero e dalla Sua riconciliazione, che cosa possiamo offrire? Di che cosa parliamo? Come possiamo raccontare di chi non abbiamo mai veramente incontrato? Questo significa che il primo vero atto di apostolato è convertire noi stessi.

Garrett Johnson
(catholic-link.com)