La rivincita dei papà, figli equilibrati se sono presenti

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Un podre molto presente, aiuta lo sviluppo dei figli. Ragazzini ben seguiti e sicuri, sono più equilibrati e hanno meno probabilità di sviluppare problemi comportamentali. E’ quanto sostiene una ricerca dell’università di Oxford che ha preso in esame un campione di 6.000 bambini. Gli esperti hanno esaminato i marcatori di coinvolgimento emotivo di queste famiglie e hanno evidenziato quanto sia essenziale questa relazione nello sviluppo emotivo.

Il fattore qualità. Da tempo diversi studi hanno rivelato quanto l’attaccamento alla figura paterna sia un elemento positivo che aiuta lo svilppo dei più piccoli. Un ‘buon papà’, attento ai bisogni del figlio, lo farà diventare un adulto sereno. Questa ricerca, in particolare, ricorda quanto sia essenziale la qualità del tempo passato con i bambini, più che la semplice quantità. “L’elemento nuovo e il punto di forza della relazione è come i nuovi padri percepiscono il loro ruolo di genitore. Se sono felici della paternità e se plasmano la loro vita in funzione di questo ruolo, il bambino si sente protetto. E’ molto più importante della quantità di tempo passato con loro”.

Un padre empatico. “Un padre empatico, che entra in sintonia con i bisogni di crescita dei figli e con le loro emozioni ha un impatto positivo su di loro – spiega Anna Oliveiro Ferraris, psicologa e psicoterapeuta, esperta in temi di educazione e autrice del libro Padri alla riscossa (edizioni Giunti) – . E’ rassicurante per un bambino sentire accanto a sè un secondo genitore, oltre alla mamma, capace di comunicare con lui, di capirlo e guidarlo. Avere la sua attenzione è motivo d’orgoglio. L’amore e l’interessamento della mamma è, come dire, scontato, dovuto. Quello del papà invece ha il sapore di una conquista: ‘nota quello che faccio’, ‘gli piaccio’, ‘vuole giocare con me’, ‘non mi sta accanto soltanto per motivi di necessità'”.

L’atteggiamento. La parola magica è empatia, una specie di ‘ponte’ fra padre e figli che crea un’alleanza. “Lo studio evidenzia in particolare come sia la disponibilità e la fiducia da parte del padre nell’assumere questo nuovo ruolo e svolgere questa nuova funzione a esercitare un’influenza positiva sul bambino ed è ipotizzabile che la capacità empatica sia sottesa a questo atteggiamento, mediando l’effetto dei risultati osservati – commenta Gaia De Campora, docente di Psicologia perinatale all’università di Torino – . Infatti, un padre che si prende cura del proprio bambino, cercando di capirne bisogni emotivi e fisiologici e tentando di rispondervi in modo adeguato, farà vivere al proprio figlio l’esperienza di un contesto rassicurante entro cui i suoi segnali comunicativi sono visti e ascoltati. In questo senso l’empatia rappresenta la possibilità di un dialogo profondo e autentico tra genitore e bambino”.

Le famiglie. Le famiglie prese in esame nello studio inglese vivevano nel sud-ovest dell’Inghilterra. Sono state monitorate per poco più di un decennio. Ai genitori di 10.440 bambini che vivono con madre e padre è stato chiesto di compilare un questionario per capire se i figli fossero equilibrati o meno. I bambini sono stati esaminati fin dai primi mesi di vita e su 6.000 di loro sono state fatte interviste anche fino ai 9 e 11 anni.

I dati. Ne è emerso che i padri che si sentivano sicuri nel rapporto con i figli e realizzati nel ruolo di genitore avevano ragazzi più equilibrati. In queste famiglie, i ragazzini avevano fino al 28% in meno di probabilità di soffrire di problemi comportamentali in pre-adolescenza. Secondo i ricercatori il padre ha un ruolo fondamentale nello sviluppo emotivo dell’individuo, mentre le madri anche una posizione rilevante per quanto riguarda la cura del piccolo.

Il ruolo protettivo. “Il potenziale effetto positivo di questo sul benessere può quindi portare a risultati migliori nei bambini – spiegano i ricercatori di Oxford – . Ci sono prove che il coinvolgimento dei padri può anche ridurre l’impatto di problemi importanti come, ad esempio, una depressione materna. Anche qui, un bambino che affronta la malattia della mamma rischia a sua volta di sviluppare problemi comportamentali. Fra l’altro un padre coinvolto e presente favorisce l’equilibrio complessivo della famiglia. Un nucleo familiare felice e coeso è un ulteriore aspetto positivo nella vita di un bambino”.

La fiducia. Lo studio inglese è una piccola rivincita per i molti uomini che sentono di avere un ruolo di secondo piano rispetto alle mogli nella gestione dei figli. “I bambini apprezzano molto che un padre impegnato con il lavoro trovi il modo di “perdere del tempo” insieme a loro, di rilassarsi e godere della reciproca compagnia – spiega ancora Anna Oliverio Ferraris – .Questo tipo di presenza paterna rafforza la fiducia in se stesso del bambino e della bambina e allarga la loro sfera sociale: in modo del tutto informale i bambini imparano modalità di interazione differenti anche con persone esterne alla famiglia. Quando sono piccoli i bambini notano le differenze fisiche e si sentono attratti e rassicurati dalla “mano grossa di papà”, dalla sua muscolatura, dal modo diverso con cui vengono afferrati, tenuti, abbracciati. Il padre contribuisce al benessere dei figli anche sostenendo psicologicamente la madre. L’accordo tra i due è indice di stabilità, una condizione molto apprezzata dai bambini”.

Quando stare accanto al figlio. Ci sono periodi per la crescita particolarmente importanti in cui i genitori devono essere più presenti? “Le figure genitoriali, svolgono una funzione centrale per tutto l’arco del ciclo vitale. La relazione che abbiamo avuto con le nostre figure di accudimento trova uno spazio all’interno della nostra mente, viene interiorizzata, continuando ad esercitare la sua influenza nel tempo e riattivando dialoghi intensi quando siamo in procinto di affrontare fasi evolutive particolarmente importanti. In questo senso, il ruolo del padre ha una funzione centrale in un’ottica intergenerazionale – commenta De Campora – . Questo processo diventa particolarmente evidente se pensiamo all’epoca perinatale: un padre che ha alle spalle un’esperienza di accudimento amorevole con il proprio genitore sarà maggiormente incline al prendersi cura del proprio figlio e a sintonizzarsi sui suoi bisogni”.

L’adolescenza. Le cose sembrano più semplici quando i bambini sono piccoli. Fra i periodi più difficili nel rapporto fra genitori e figli c’è quello dell’adolescenza, quando i ragazzi incominciano a distaccarsi e a criticare gli adulti. Emerge un bisogno di autonomia, ma anche qui il ruolo del padre è fondamentale. “In questa fase convergono due scenari diversi: da una parte la qualità della relazione vissuta con i propri genitori nel corso dell’infanzia consente al figlio di mostrare la sua riflessività, la sua capacità di comunicare sul piano empatico, aspetto che influenza fortemente le relazioni con i pari e il comportamento sociale in generale – conclude De Campora – . Infatti, la scarsa capacità di riflettere e comprendere il comportamento dell’altro in termini di stati emotivi espone il ragazzo ad una maggiore probabilità di mostrare comportamenti violenti, come il bullismo; dall’altra, l’adolescenza rimane una fase di forti cambiamenti di per sé, in cui gli eventi di vita tendono ad avere un forte ascendente sul comportamento, indipendentemente dalla storia infantile. Il ruolo del padre è quindi essenziale nel rappresentare sia un riferimento normativo necessario a stabilire dei confini e sia un rifugio sicuro su cui fare affidamento”.

Valeria Pini
http://www.repubblica.it/salute/2016/11/26/news/stare_con_papa_stretto-152607284/

Bambini: ogni tanto un pò di noia fa bene

aburrido

Tra collezionare oggetti e collezionare esperienze ho sempre preferito le esperienze. Anche per i bambini sono convinta che un corso di atletica (o di qualsivoglia altra disciplina) sia meglio di una playstation. Tuttavia, se poi le “esperienze” da fare diventano davvero troppe mi chiedo se non siano tossiche pure quelle.

A questo proposito, anni fa ho letto la storia di una mamma, la quale raccontava di come, mentre i figli erano da alcuni parenti, si fosse resa conto, improvvisamente, di quanti giocattoli avevano. Aveva anche notato come, spesso, si lamentassero di “non aver nulla da fare”. Spinta da tali riflessioni, aveva dunque raccolto la maggior parte dei giocattoli e li aveva portati in cantina, per darli via.

Aveva tenuto solo alcune cose: i libri, matite, pennarelli e tutto l’occorrente per disegnare, alcuni pupazzi preferiti e quattro o cinque giochi con i quali aveva visto i figli giocare più spesso. Tornati i figli a casa non aveva detto assolutamente nulla. Loro erano entrati nella stanza e, improvvisamente, si erano accorti che molte cose erano sparite.

Poi, raccontava la mamma in questione (la quale li spiava dalla stanza accanto), qualcosa di magico era accaduto. Sorpresi e ammutoliti i bambini non avevano protestato ma avevano cominciato ad aggirarsi per la stanza, straniti e sognanti, e infine, forse improvvisamente felici di aver perso qualcosa per recuperare dello spazio vuoto, avevano iniziato a giocare insieme inventando un nuovo gioco, fatto di cose invisibili.

Del resto, qualunque adulto sa per esperienza cosa può accadere sotto l’albero di Natale, quando la logica iper-inflattiva raggiunge il suo acme: tra i giocattoli ricevuti, spesso il bambino (se ancora piccolo), finisce per scegliere l’oggetto meno sofisticato.

Ci ho ripensato in particolare pochi giorni fa, quando ho sentito un’altra storia, per certi versi simile. Era contenuta in un podcast registrato negli Stati Uniti, della serie “mom podcast”, una raccolta di conferenze e di dialoghi tra mamme su argomenti di interesse per genitori ed educatori.

Una mamma aveva raccontato che, in seguito alla crisi finanziaria, la sua famiglia aveva dovuto tagliare alcune spese. Anche i figli ne avevano risentito perché aveva dovuto sospendere tutte le attività extra curriculari che i ragazzi svolgevano ogni giorno. Niente più nuoto o pianoforte, judo o ceramica, hockey e teatro. I ragazzi (ne aveva tre, preadolescenti e adolescenti), dopo un primo momento di libertà e di rilassamento se ne erano lamentati e avevano dovuto imparare a riorganizzarsi i loro pomeriggi.

Poi era successo qualcosa: i ragazzi si erano accorti che alcune delle attività che prima svolgevano non gli mancavano per niente. Tutto sommato era bello farne a meno. Al tempo stesso si erano resi conto che ad alcune cose non volevano rinunciare. Una delle figlie, che non aveva mai fatto volentieri gli esercizi di pianoforte, si mise a suonare tutti i pomeriggi, per non dimenticare quello che aveva imparato sino a a quel momento.

Insomma – raccontava la mamma americana – i suoi figli, privati di tante esperienze, avevano improvvisamente capito ciò che amavano veramente e ciò di cui, invece, potevano forse fare a meno e che, magari, avevano iniziato a fare solo perché lo facevano altri amici.

In entrambe queste storie di vita vissuta l’improvvisa privazione aveva fatto emergere qualcosa di importante nella conoscenza di sé. Nel vuoto, in altre parole, era nata una nuova pienezza, derivante dal riconoscere di avere bisogno – tutto sommato – di poche cose (ma quelle poche… di volerle tanto). Less is more, insomma.

I nostri figli sono diventati le principali prede del consumismo alimentato dalle grandi aziende: basta guardare le pubblicità che fanno in televisione tra un cartone animato e l’altro. Ogni tanto, quindi non mi pare male insegnare loro a fare un po’ di spazio, un po’ di vuoto. Lo psicoanalista Masud Khan affermava l’importanza di lasciare periodicamente la propria mente “come un campo a maggese”. Ecco, mi pare, una buona indicazione da seguire, per i bambini e…per gli adulti.

Elisabetta Cassese http://www.educazioneglobale.com/2014/05/bambini-ogni-tanto-un-po-di-noia-fa-bene/