Mi si chiede di trattare l’argomento dell’attuale stato del linguaggio della comunicazione della fede. Credo sia opportuno partire da una constatazione: questo linguaggio sembra essere in molti casi fallimentare, inefficace, non attraente.
La colpa, mi sembra necessario riconoscerlo, è del nostro stile di annuncio. Il problema siamo noi. Cercherò di menzionare, a peso, senza troppa analisi, i tipi di difetti che la nostra predicazione presenta a mio avviso.
Quanto vado ad enumerare non ha nessuna pretesa di esaustività. Sono solo i punti principali, esposti in grande sintesi, macroscopicamente evidenti, se si vuole fare un’analisi di massima della situazione.
1. Difetto fondamentale e diffusissimo è presupporre la fede negli ascoltatori; spesso ci si ritiene investiti dell’autorevolezza sacramentale che l’ascoltatore non riconosce, anzi non conosce proprio.
Direi che la colpa principale di questo approccio è la scarsa considerazione che l’ascoltatore e la sua condizione reale trovano in chi predica. L’assemblea, ad esempio di un matrimonio, è distratta, superficiale, estranea alla liturgia? E chi se ne avvede? Il sacerdote è partito nella sua descrizione della fedeltà prima battesimale e poi nuziale all’alleanza con Dio, parla della grazia che è donata nel sacramento, della vocazione salvifica della famiglia, mentre oramai molta gente non riesce nemmeno a capire il contenuto logico del lessema “sacramento”, o “grazia”, o “salvezza”. Una cosa sola l’uditorio ha per certa: che presto o tardi il prete smetterà di parlare. Possiamo parlare di coincidenza topografica fra predicatore e assemblea, ma non c’è molto di più in comune fra le due parti. L’assemblea non capisce il predicatore, e il predicatore non ha provato a capire l’assemblea.
2. Una fetta non piccola dei nostri sforzi predicatori viene sperperata in due filoni di un vecchio approccio:
a. Il vetero-moralismo, che per un’inerzia secolare da controriforma, insiste sulle opere, spossando l’ascoltatore con la pressione della pretesa. Il difetto maggiore di quest’approccio: se l’agire è conseguenza dell’essere, diventa ridicolo chiedere di agire cristianamente a chi cristiano, forse, non è se non in parte ancora tutta da verificare, perché spesso non è stato formato ad esserlo. Se infatti ripetiamo spesso che la crisi del popolo di Dio è la sua formazione carente, come pensiamo di poter risolvere il problema partendo dal pretendere i risultati? In ogni caso, per definizione, il linguaggio moralista non può essere il linguaggio dell’annuncio.
b. Il neo-moralismo, che confonde il cristianesimo con la forza di volontà, e scivola in approcci stile new-age, ponendo tutta la forza della redenzione nella ‘decisione’ come fulcro salvifico. In fondo a Gesù Cristo non rimane altro ruolo che quello di stimolo, di causa solo ed unicamente esemplare.
3. Molte occasioni vengono altresì sprecate in funzione di un peccato tipicamente clericale, una vanagloria ecclesiastica dura a morire, che definisco teologismo astratto. Mentre la gente aspetta di essere coinvolta nella spiegazione della Parola di Dio, ecco che prorompe la libido teologica e si affonda in una serie di precisazioni da algebra dogmatica. Si è, di conseguenza, precisi ed elevati, quanto inutili e noiosi.
4. Ma come non citare anche un altro filone, trionfante e diffuso: il sentimentalismo. La ricerca metodica del punto erogeno nell’ascolto e la tecnica sonora di avviluppante melassa, che tocca la zona certa dell’emotivo, del lacrimevole. Certe pause, certi toni, anche se diametralmente opposti allo stentoreo della vecchia retorica, hanno però in comune lo stesso orribile difetto di fondo: suonano falsi. Ormai questa tecnica è comune ai preti e ai politici. In certo senso viene da chiedersi se sia Veltroni che parla da prete o i preti che hanno da tempo sposato una comunicazione buonista-veltroniana. In questi modi non si è ‘persona’, ma ‘personaggio’. Con tale tecnica non si fa un annuncio ma si da luogo ad un evanescente momento ormonale-impulsivo.
5. Non possiamo tralasciare la fresca generazione dei predicatori provenienti dalle nuove esperienze ecclesiali, movimenti e simili. Qui il difetto è di altro genere, quello di scivolare dal tono kerigmatico-passionale allo stato di espettorazione ripetitiva dello slogan catechetico appreso nel proprio movimento: puoi avere davanti anziane del rosario, fanciulli del catechismo o coppie di fidanzati, la polpetta è la stessa, gli esempi sono gli stessi, i decibel impiegati sono gli stessi. E il senso di estraneità dell’uditorio pure.
6. Di pari passo procede un simile risultato di derivazione più semplice e banale: uno si trova quei quattro schemi che gli sembrano funzionare, e ormai da anni li emette a selezione random. Lentamente ogni predicazione scivola verso questo imbuto precostituito e si finisce per suonare sempre la stessa solfa. È un difetto da replica semi-ossessiva (soprattutto per l’ascoltatore) del rassicurante schema già noto. In poche parole: una mancanza di creatività che genera ripetitività.
7. E che più? Parlando di mancanza di creatività viene in mente un’altra negligenza con cui molti porgono la predicazione: se anche il discorso è azzeccato nella sostanza, si autosqualifica per un difetto essenziale, quello di un tono monocorde. Chissà perché si pensa di avere risolto il problema di una spiegazione del Vangelo quando ne abbiamo identificato i contenuti. A quel punto, invece, abbiamo il bisogno di passare alla fase non meno importante dell’attenzione alla modalità espressiva, della cura della “musica” delle parole, perché di fatto è la cosa che più direttamente influisce sull’ascolto. La parola udita, prima di essere senso, è suono. Certi preti sono così negligenti sulla musica delle proprie parole, sono così concentrati sul significato, e così piatti sul livello sonoro, da divenire prepotentemente, implacabilmente soporiferi. È anche questo un ministero, quello del riposo.
Abbiamo finito? No, certo che no. C’è tanto altro di cui intristirsi. Ma a ben vedere questi sono, tutto sommato, difetti umani che si riflettono nel linguaggio.
Perché dire ciò? Perché in modo costante mi trovo di fronte a responsabili ecclesiali di vario livello che venendo a sapere del felice impatto che l’esperienza sui 10 comandamenti ha sulla gente, mi chiedono aiuto, ma fondamentalmente mirano ad uno specifico risultato: avere gli schemi.
E io mi lancio ogni volta nella difficile esplicazione dell’inutilità di tale richiesta. Riuscirò a spiegarmi questa volta? Mah…
Ci riprovo per l’ennesima volta e faccio l’esempio che di solito uso: si cerca uno schema funzionante, un’idea che impatti, e si tenta di trovare una formula nuova ed efficace, una ricetta che possa alzare il livello della cucina. Come si cerca lo spartito di una musica che sia più gradevole, più bella, più geniale.
E allora? Mettiamo che io tiri fuori lo spartito della Settima sinfonia di Beethoven. La musica, lo spartito, lo schema è straordinario. Ma chi lo suonerà? Se a quel punto prendo il flauto dolce e ci suono la Settima di Beethoven, sarà un’esecuzione allappante e ridicola.
Tutti cercano gli spartiti, ma in realtà il problema sono gli esecutori. Anzi, corriamo il rischio di giudicare orribile la Settima di Beethoven, mentre orribile è solo l’esecuzione.
Si cercano contenuti, e a me sembra che la nostra bellissima fede ce ne dia a bizzeffe. 10 comandamenti? Per ora si può fare questo, ma forse fra un po’ si deve fare altro. Qualunque argomento può essere reso in modo vitale. Se Pollini suona l’orribile inno di Mameli, te lo fa sembrare bello.
Allora cortocircuitiamo con quanto detto sopra: difetti umani. Qui non si tratta di avere nuove idee ma un tratto predicatorio diverso.
Cosa ce lo può fornire? È chiaro che abbiamo bisogno di lavorare profondamente a livello della formazione, dove si apprende lo stile. Ma quali possono essere i principi cardine?
Discutiamone; io propongo le mie povere intuizioni in materia, ma se non spostiamo l’argomento su questo livello, restiamo sempre al palo.
Offro il poco che io ho capito e che forse può essere utile.
Quale linguaggio può farci uscire dallo stato di stallo? Dobbiamo chiederci se disponiamo di un linguaggio più adatto alla presente generazione che è quella del post-concilio e dell’era post-moderna. Va detto che fra le tante note caratteristiche di questo popolo dell’oggi, una non trova, a mio avviso sufficiente evidenza: siamo di fronte alla prima generazione alfabetizzata della storia.
Si trovano ancora nei nostri monasteri di clausura delle anziane religiose che leggono a fatica. Ma la generazione presente, fatto assolutamente nuovo, è certamente in grado di leggere e scrivere. E ha un nuovo modo di ascoltare, anche perché la nuova religione, che è la scienza, panacea di ogni problema umano, rende gli ascoltatori critici come mai verso l’argomento religioso.
E che linguaggio possiamo proporre? Vediamo: quali linguaggi ha la Chiesa? Meglio ancora: quali linguaggi sono messi a disposizione della Chiesa dalla Rivelazione? Voglio introdurre la tematica dei tre linguaggi della Rivelazione.
L’A.T. dispone, a grandi linee, delle celeberrime tre parti: Legge, profeti e scritti. Nella legge abbiamo il linguaggio apodittico o casistico ma comunque nomistico, definitivo, imperativo. La norma è uno slogan, una formulazione secca che o la si accetta o la si rifiuta, la sua forza è nell’autorità dell’emittente, Iddio stesso.
Nei profeti abbiamo l’esortazione, l’applicazione al quotidiano dello slogan della legge. I profeti ricordano i doveri dell’alleanza al popolo. Il linguaggio profetico è eminentemente morale, il carattere è quello dello sprone alla coerenza con la legge. La cogenza del linguaggio profetico è la condizione di popolo dell’alleanza. La congruenza etica è la potenza di questo linguaggio.
Negli scritti compare un altro linguaggio, quello sapienziale, esplicativo, educativo. È il linguaggio paterno, educativo, che spesso basa sulla logica e sulla constatazione del reale la sua forza di convincimento. Senza sfociare nel filosofico, il linguaggio sapienziale non comunica regole, non impone doveri ma motiva, spiega, rende semplicemente accettabile il richiamo della legge, che risulta luminoso, opportuno, utile, produttore di felicità.
Il N.T. non presenta, sorprendentemente, un cambio di linguaggi ma una semplice traslazione di occasioni. Lo slogan della legge diventa la formulazione del linguaggio kerigmatico, che è la ripetizione di formule che pian piano divengono stereotipate, e racchiudono come seme tutto lo sviluppo della fede. Sono enunciazioni che rinveniamo sparse fra i racconti della resurrezione, le lettere paoline, soprattutto gli Atti degli Apostoli. Brevi locuzioni, nette, pregnanti. Chiedono l’assenso, pongono davanti alla scelta di aprirsi o meno.
L’esortazione profetica, a sua volta, diviene il linguaggio parenetico tipico del richiamo paolino, ma anche di altri scritti. Questo è il linguaggio etico, della esortazione alla coerenza con la fede nell’agire, a vivere secondo l’uomo nuovo.
E quale è il linguaggio che sta fra le due fasi, quello che copre lo spazio fra l’apertura alla fede e la fede ricevuta in pieno, ormai da praticare? Quello che nell’A.T. è il linguaggio sapienziale, diviene nel N.T. il linguaggio didascalico. Il discorso fatto alla ragione perché assimili il kerigma, lo possieda, lo arrivi ad incarnare; le istruzioni per l’uso e l’appropriamento dell’evento salvifico. La parola che istruisce, ammaestra, spiega, rende masticabile e digeribile la salvezza cristiana.
Una nota storica: da Trento in poi, fino al Vaticano II, avevamo solo ed unicamente il linguaggio morale parenetico, che spesso diveniva moralista, ma che, in una società fondamentalmente già convinta di cristianesimo, esortava alla coerenza.
Grande riscoperta pratica del tempo del Concilio è la riproposizione, dopo secoli di assenza, del linguaggio kerigmatico, sotto l’influsso di due spinte: l’aver rimesso al centro della teologia il mistero pasquale e la prassi, non ininfluente, dei movimenti, tendenzialmente molto kerigmatici.
Il kerigma, in se per se, è formulazione univoca ed inequivocabile, ma il suo rischio è un uso che ne dimentichi la natura di “seme”, di punto di partenza. Non si mangia un seme, ma da un seme si deve partire per poter arrivare a mangiare un frutto. Il seme va coltivato, assecondato nei suoi tempi di maturazione, e per quanto sia vero che un seme contiene un albero, è altresì vero che un seme non è un albero. Perché dire ciò? Perché la fase kerigmatica deve essere preludio ad una fase didascalica, altrimenti parliamo di vera e propria sterilità, paradossalmente, per abbondanza di semente.
Siamo di fronte ad una sovrabbondanza di annunci kerigmatici a motivo di un tutt’altro che disprezzabile sforzo predicatorio messo in atto da movimenti, iniziative delle diocesi, missioni giovanili e simili, cui dovrebbero corrispondere altrettante iniziative didascalico-formative. Invece si salta spesso dal kerigma alla parenesi, al volontariato, al frutto senza fusto e corteccia, direttamente senza passare dal ‘via’…
Cosa è una mentalità didascalica? Cosa è un’intelligenza formativa? Quali sono le caratteristiche di un’efficace operazione di autentica iniziazione? Mi sembra che questo sia il vero dito nella piaga della pastorale. Siamo tutto sommato capaci di esporre come la Parrocchia debba essere, ma non sappiamo cose si fa per portarla ad essere come la prospettiamo.
E continuiamo ad affastellare documenti sull’immagine della parrocchia, sul tipo di configurazione collaborativa fra pastori e corresponsabili della pastorale, in una sorta di neo-hegelismo ecclesiale: ci è chiaro come si dovrebbe essere, ma in genere non si sa come arrivarci.
E allora il linguaggio della stragrande maggioranza dei predicatori resta parenetico, esortativo, tutto sulla coerenza, tutto sul bene da fare. E gli ascoltatori chiudono l’audio.
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Quali sono le caratteristiche di una comunicazione virtuosa, efficace? Cominciamo col controbilanciare i difetti già esposti: è anzitutto urgente non presupporre la fede in chi ascolta. Questo facilita il linguaggio didascalico, perché parlare pensando di aver davanti persone che non possiedono le categorie religiose ci aiuta a sdoganare naturalmente il linguaggio da una fase assiomatica ad una zona di traduzione, per così dire, dei concetti.
A tal proposito va ricordato che le forme del linguaggio umano sono fondamentalmente tre: i linguaggi di tipo univoco, equivoco ed analogico.
Univoco è il linguaggio, ad esempio, scientifico, che per una convenzione prestabilita usa i termini in modo coerente con detta convenzione, e qui ci imparentiamo con le espressioni nomistiche prima, e kerigmatiche poi, univoche, assiomatiche, apodittiche. Va detto a tal proposito che i nuovi linguaggi intra-ecclesiali, quelli che si vanno creando in certi contesti come inconsapevoli convenzioni linguistiche, diventano facilmente le gabbie in cui questi gruppi dal linguaggio stereotipato e riconoscibile si chiudono involontariamente, e spiegano l’attuale incontrovertibile crisi di nuove adesioni nei movimenti. Il linguaggio interno, dopo aver avuto il felice impatto della novità, diviene invece carcere comunicativo, dove la Parola viene ingabbiata dalla parola, quest’ultima essendo stata un tempo felice analogia, ora fungendo da struttura di sicurezza del predicatore inesperto o poco riflessivo, nello stesso tempo fungendo da barriera impenetrabile. Sia detto che comunque questo è un difetto diffusissimo, laddove si stabiliscano convenzioni linguistiche da appartenenza, fatto, questo, quasi impossibile da evitare se l’appartenenza è percepita come vitale, salvifica. Il linguaggio però non può essere sovradimensionato a totem intoccabile, dove non si possa riformulare quanto esposto, perché si passa dal presupporre la fede a presupporre addirittura uno specifico linguaggio della fede. Siamo al paradosso.
In sostanza: il linguaggio univoco, convenzionato, che sia quello accademico, o teologico, o di appartenenza si dimostra facilmente come fallimentare.
Breve trattazione richiede il linguaggio equivoco, essendo questo artifizio di tipo artistico o comico. È infatti il linguaggio poetico, oppure ironico, quello che varca le regole della logica per darci il paradosso, l`“oltre” della lingua, oppure la comicità. Questo è un linguaggio ingiustamente disprezzato dagli anziani predicatori, e spesso usato male dai giovani. Gli anziani erano troppo inchiodati al “dignitoso” per passare per l’assurdo e il comico; i giovani spesso dimenticano che un paradosso o un elemento ironico devono, per definizione essere nuovi, freschi, altrimenti diventano essi stessi convenzione noiosa.
Ma il linguaggio principe di ogni comunicazione valida è, e non può che essere, il linguaggio analogico. Questo è il linguaggio più efficace per definizione. La forza di un annuncio è nelle analogie impiegate. Si capisce meglio un esempio indovinato che un intero discorso coerente e logico ma privo di analogie. Se la nostra emergenza è lo sdoganamento dei contenuti della fede dal linguaggio religioso alla accessibilità per un uditorio post-religioso quale il nostro, la condizione obbligata è il linguaggio analogico.
È la scelta degli esempi che convoglia l’attenzione all’uditorio. Se l’esempio tocca l’ordinario o il vissuto storico dell’ascoltatore, quest’ultimo balza dentro le mie parole, si sente capito e mi vuole capire, perché in un istante gli sono diventato intimo, coinvolgendolo con un esempio in cui lui si muove bene.
Tutto il mio intervento sarebbe a buon fine se solo questa idea passasse: quando si comunica, metà del valore della comunicazione sta negli esempi impiegati, che non vanno solo preparati. L’esempio più efficace è quello che la presenza, il magnetismo dell’uditorio stesso provoca in chi annunzia la Parola.
Come salvarsi dalle comunicazioni moraliste di vario stampo? Dobbiamo ricordare che il moralismo, questo senso latente di esigenza che preme sull’ascoltatore, deriva buona parte delle sue polveri da una sopravvalutazione della volontà. L’imperativo categorico kantiano perde ogni partita contro un altro elemento pure tanto fedele alla nostra tradizione cristiana: il desiderio.
Quanto predico posso presentarlo come giusto o come bello. Il bello avrà la meglio in ogni caso. Allora il tema patristico del ‘fascinans’ torna quanto mai proficuo in un mondo narcisista ed estetizzante come il nostro. Mi preme quindi di trovare meno la doverosità di quanto predico e molto di più la bellezza di quanto propongo. Proporre una scalata di una montagna per imparare l’abnegazione del sacrificio fisico ha pessimo gioco se confrontato col proporre la scalata della stessa montagna per il gusto dell’avventura, per la bellezza del paesaggio, per l’obbiettivo di arrivare alla meta e via dicendo. Quante volte l’annuncio si snoda verso un terreno molto più interessante quando semplicemente si introducono domande: ma perché fare questo? Cosa c`è di bello in questo? A cosa mi può servire? Questa, eminentemente, è tecnica sapienziale-didascalica.
Alla fin fine possiamo dividere i vari difetti della predicazione nei due poli della comunicazione, il predicatore e l’ascoltatore, e identificare teologismo astratto, fissità da slogan catechetico o da mancanza di creatività e tono monocorde come polarizzazioni eccessive sul predicatore il quale difetta nel varcare la soglia della propria autocomprensione, e disattende ogni realtà che non sia il contenuto che vuole comunicare. Questo contenuto è il suo assoluto, e, ahimé, in un modo o in un altro vive in uno sterile autismo comunicativo.
Dall’altra parte, moralismo di qualsivoglia guisa e sentimentalismo sono avventure predicatorie tutte disegnate sull’ascoltatore che è ora sottoposto ad esigenza schiacciante, ora strumentalizzato dalla melassa sentimentale.
Questi difetti comunicativi possono essere risolti da un linguaggio didascalico che si snodi per analogie, ma vorrei fornire due ulteriori elementi costruttivi per questo scopo.
È assolutamente urgente imparare ed insegnare, o perlomeno portare alla coscienza formativa, il fattore della musica delle parole usate.
Per insegnare ad alcuni collaboratori a cambiare musica alcune volte li ho traumatizzati costringendoli a riascoltare una registrazione di una propria predicazione. Io stesso, se mi riascolto, mi trovo inascoltabile, ed è una piccola sofferenza a cui ogni tanto mi sottopongo per avere ben presente i miei difetti comunicativi, le mie lentezze, le mie ingenuità, le mie esagerazioni, le mancanze di mordente, i toni mosci e quant’altro. In questo senso bisogna pervenire ad una sorta di comunicazione uditiva, ove il primo ricettore della predicazione è proprio il predicatore.
Questo essere seduti davanti a se stessi ad ascoltarsi, questo dire le cose come vorremmo sentircele dire ci può insegnare un ulteriore livello qualitativo, quello in cui la comunicazione non è del tutto predeterminata ma definita, nella sua realizzazione concreta, dall’olfatto dell’assemblea, una sorta di fiuto che permette di capire chi si ha davanti e cosa possa recepire.
In tal senso, ben inteso, l’uditore non può determinare il contenuto, altrimenti l’oratore é un comunicatore subdolo, ipocrita o senza personalità, ma l’uditore deve determinare la forma della comunicazione, almeno in parte. Di certo la musica delle mie parole la devo saper mutare secondo il contesto.
E arriviamo all’ultimo elemento: noi comunichiamo sempre attraverso generi letterari. Voglio ricordare una legge della lettura dei testi che diventa proficua coordinata comunicativa al momento di emettere un testo, anche solo parlato: nei testi il contenuto si rinviene costantemente nella rottura del genere letterario. Mi spiego, e forse non è azione necessaria per chi ha avuto lo stomaco di ascoltarmi finora: ogni comunicazione ha il suo latente genere letterario di riferimento. Se io parlassi rispettando seccamente, pedissequamente, il genere letterario, la mia comunicazione risulterebbe la più noiosa possibile. Infatti i generi letterari sono schemi inconsapevoli che noi usiamo nella comunicazione come strutture prefabbricate atte a fornire uno schema, uno scheletro alle nostre articolazioni comunicative. Ma se vengono rispettati del tutto, essendo convenzioni comuni, sono assolutamente prevedibili.
Quando analizzo un racconto di miracolo, ad esempio, cerco la violazione dello schema, l’imprevedibile del testo, l’elemento fuori genere, perché è proprio li che risiede la comunicazione.
Allora è quanto mai efficace divenire gestori consapevoli di cotanta legge della trasmissione del senso: la rottura del genere letterario è necessaria alla comunicazione, la rottura dello schema permette l’ascolto. Si deve sempre dire, paradossalmente, il contrario di quanto si dice, ossia: devo usare uno schema che faccia da sfondo di contrasto a quanto voglio dire.
Non dimentichiamo che il Signore Gesù si è incarnato in una cultura semitica, e di questa cultura ha assunto una caratteristica, e l’ha sposata forse come nessuno: il linguaggio paradossale. Impossibile leggere i Vangeli se non si è disposti ad affrontare i paradossi. Quando si leggono i Vangeli, fra le molte cose a cui si può essere portati, di certo si è portati a pensare. Tocca restarci con la testa su. Gesù, per quello che ci resta della sua comunicazione, ci costringe ad ascoltarlo. Era un maestro. Un didàscalo. E parlava in parabole, ossia con analogie. E rompeva gli schemi comunicativi. Questo è saper parlare!
Don Fabio Rosini